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Il poeta di Melicuccà, Lorenzo Calogero

di Carmelina Sicari

C’è un anniversario che non è stato mai celebrato e che tuttavia merita di essere riportato alla memoria. L’anniversario della nascita avvenuta nel 1910 a Melicuccà del grande poeta calabrese Lorenzo Calogero. Poeta lirico, del dolore e della morte, per lui si può ben parlare di leopardismo, dell’eredità tardiva e forse inconsapevole del grande di Recanati.
Il valore salvifico della poesia, l’assillo del pensiero dominante, quello della morte appunto, possono dunque ben collocare Lorenzo Calogero sulla scia di Leopardi.

La morte sul cui virgineo seno Leopardi sognava di poggiare il capo, è per il poeta di Melicuccà “la non amante amata che m’ama ancora”. Ed egli concluderà con il suicidio l’aspirazione costante ad incontrarla.

L’ombra della morte è visibile in tutte le sue raccolte poetiche da Poco suono a  Perpendicolarmente a vuoto a I quaderni di Villa Nuccia.

Ma c’è un altro elemento a legare i due ambiti poetici, la cosmicità, l’oltre il mondo materiale, la sete di infinito ed invisibile.

Il tema della morte è centrale specie ne I quaderni di Villa Nuccia:
Lo sussurravano, lo bisbigliavano talvolta i morti
in una luce che li abbaglia.”
Qui l’accostamento della morte alla luce è davvero straordinario e così rapido da lasciare senza fiato.
Oppure: “Com’è  dolce e lieve il cielo dei morti”.

Vicino al suo corpo il 25 marzo del ’61 viene trovato Inno alla morte, che è forse la sua ultima composizione.

Il pensiero della morte, esplorato per Leopardi da Emanuele Severino e da Antonio Prete, sembra aver contagiato il poeta di Melicuccà.
Pensiero della fragilità dell’essere, del suo essere per il nulla che determina in Leopardi la stupenda sinfonia de Il coro dei morti ed Il canto del gallo silvestre, dove il gallo annuncia il risveglio come una tappa della non vita.
Ci sarà un momento, dice Leopardi, in cui potrete non svegliarvi più.

Ma lo straordinario paradosso sta nella cosmicità, nella pienezza dell’essere che si dilata a tutte le vite che possiamo immaginare o cogliere nel creato, pur nella puntualità e nella condizione transitoria dell’esistenza.
L’infinito della finitudine. Come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in questo modo può riassumersi in Leopardi il sentimento così insolito ed estremo dell’infinito.
Calogero ne è l’interprete epigonale.

Le poesie a cui egli dedicò l’intera esistenza in una serie di raccolte: Poco suono, Parole del tempo, Ma questo…, Perpendicolarmente a vuoto, Come in dittici, I quaderni di Villa Nuccia, furono rifiutate nei diversi tentativi da lui fatti, da Carlo Betocchi che non ne pubblicò mai nessuna sulla rivista letteraria Frontespizio, e poi da Einaudi.
Solo Sinisgalli ne comprese il valore e propose la pubblicazione presso Lerici, uscita postuma.

La vicenda umana, grama e dura di Calogero ricorda molto l’esistenza storica di Leopardi nel natio borgo selvaggio.
L’eredità di Leopardi è più forte in lui che nei poeti ermetici. Mi riferisco soprattutto a Ungaretti e Montale. Essi contraggono nell’analogia l’idillio ma non hanno il senso del dolore e della morte come Calogero.

L’essere e il nulla titolava la sua lettura di Leopardi Emanuele Severino, di recente scomparso.
La sua ricerca dell’essere presuppone in Leopardi e ne è documento La ginestra, una nuova soggettività come afferma anche Toni Negri in un breve tratto dell’Anomalia selvaggia.
Questa soggettività è proprio quella della pienezza dell’essere, della sua dilatazione al creato, come accade anche in Calogero.
Rigoni sostiene proprio su questo punto la vicinanza di Leopardi a Nietzsche.

Dal mare rovinoso
poco suono giunge al mio orecchio assorto
ad ascoltare l’eterno
che come un angelo passa. 

La definizione di misticismo usata da Antonio Prete per Leopardi potrebbe a ragione essere estesa a Calogero.

Secondo Prete, il silenzio di Pascal si ritrova nell’Infinito, ma Calogero non è da meno.

Come l’Infinito appare l’esperienza mistica del razionalista Leopardi, così lo è l’angelo del poeta di Melicuccà.
Un misticismo razionale che protrae nel Novecento la grande esperienza poetica del recanatese.


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