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Le radici popolari della fiaba calabrese


di Carmelina Sicari - direttrice di Calabria Sconosciuta
Ha a lungo indagato sulla fiaba calabrese Saverio Strati che ha anche raccolto molti racconti popolari e soprattutto ci ha lasciato quella stupenda fiaba che è Tibi e Tascia. In quel racconto la cornice è l'adolescenza di per sé fiabesca, dove i sogni vaghi e le speranze si uniscono a formare per l'appunto la dimensione della fiaba. Un orizzonte impreciso in cui forze bizzarre si rivelano e si ergono a contrastare la formazione ed a costituire il destino. Lo scenario del racconto di Strati è l'estrema difficoltà costituita dalla natura. Acque, acque. I ragazzi si muovono scalzi e giocano mentre i genitori vanno a giornata nei campi. Uno scenario di estrema povertà e di estrema leggerezza perché i due ragazzi, ignari ancora si configurano un vago avvenire. C'è un fantasma che percorre il racconto e che costituisce un archetipo del racconto fiabesco calabrese, la fortuna. Essa sceglierà Tiberio, Tibi che sarà raccolto e allevato dai ricchi signori del paese. La fortuna sola può fare uscire dall'endemica povertà. La fortuna in sé ha un elemento, il meraviglioso, lo straordinario. Il calabrese e le fiabe riflettono questo atteggiamento, si attende sempre qualcosa di straordinario che muti la sua vita, che cambi la sua esistenza e la storia. Quando qualcuno interviene nel cambiamento con una sua iniziativa allora costituisce un tipo, un soggetto particolare. Nel racconto classico, della coppola, il furbo contadino in cambio di un favore ad un santo monaco, chiede di poter seguire sempre la sorte della sua coppola. Quando giunge un Paradiso donde sta per essere scacciato per i suoi numerosi peccati, egli getta dentro la sua coppola ed il Paradiso non può essergli negato. I santi monaci, i basiliani, abitano le fiabe popolari calabresi. C'è il monaco che chiede al pellegrino forbici e forbicioni per tagliare barba e baffoni, tanto grande era lo stato selvaggio a cui costringeva la vita eremitica. Ma l'archetipo più saldo e costante è la morale. I ricchi sono puniti perché in genere la ricchezza si unisce all'avidità ed alla superbia. Nel racconto di Pietrino e della mula, durante una tempesta terribile, Petrino, ricco, proprietario di ritorno dalle sue terre si ostina di restare a cavallo perché non può confondersi con il servo che cammina a piedi e che lo invita a non restare sotto la neve a dorso della mula. Il servo lo vede ridere ed a più riprese chiede: - che avete Petruzzo che ridete? E quello non risponde finché giunti in paese, scivola da cavallo morto. Il riso era il ghigno della morte che lo ha sorpreso per la sua stoltezza ed ostinazione.

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