di Franco Pedatella
Il
brano è stato ispirato dalla dolorosa notizia che mio cugino Pino Grandinetti è
venuto a mancare all’affetto di noi cari, piegato da un male inesorabile contro
cui ha lottato tenacemente ma inutilmente. Subito, come
in un flashback, ho rivissuto gli anni della nostra infanzia trascorsa insieme,
le difficoltà che ci hanno accomunati, la sua partenza per Roma, i suoi studi e
la sua carriera professionale. Su tutto, dominante, ha campeggiato nei miei
ricordi la figura della madre, zia Gilda, onnipresente ed instancabile, eroina
di una vicenda personale nella quale s’è fatta carico da sola di questo figlio,
alle cui cure si è dedicata completamente e per tutta la vita, essendo il
marito lontano.
Quivi
si chiude la vicenda umana
di
Pino Grandinetti, mio cugino,
figlio
di donna di virtù speciale.
A
lui le dita dell’Aurora il sole
tese
e le guance tinse bianco-rosa.
La
madre nulla a lui fece mancare,
non
cibo, non vestiti né istruzione,
anzi
d’ammirazion ne fece il segno
cui
forse con invidia alcun guardava
nelle
difficoltà del dopoguerra.
Ma
questo non scalfì l’animo sano,
ché
generosa l’indole natìa
gli
era, e mai discese in basso loco,
ma
sempre in alto l’occhio fiso affisse
per
collocarsi là ov’ aere è puro,
lungi
anni-luce da miserie umane.
Qual
fior reclina il capo in verde campo,
anch’ei,
da mal nascosto or vinto, il guardo
piega
e in pensier teneramente abbraccia
gli
amori che in sua vita ebbe compagni;
e
poi sen va pei inesplorati calli
ove
il rumor mondano è solo un eco
di
fiume in piena, che straripa e perde
la
foce ov’ acqua giace e poi risorge,
per
ritornar di nuovo a pura fonte,
donde
di vita il ciclo ricomincia
e
mai si ferma il corso alla speranza
che
il tutto torni al tutto, ugual e eterno.
Aiello
Calabro, 18 aprile 2012
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