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Unità d’Italia. Martiri calabresi della causa della Libertà italiana

di Gaetanina Sicari Ruffo
Nell'immediatezza della ricorrenza dei centocinquanta anni dall'Unità italiana la Calabria non può fare a meno di ricordare quanti dei suoi figli combatterono e morirono per annunziare i principi di libertà e d'uguaglianza che si propagavano nella penisola, a partire dal 1847, con un anno di anticipo sul '48 e tredici prima della Spedizione dei Mille.
A Reggio Calabria e nella sua provincia comitati di volontari raccolsero l'invito che veniva da Napoli e da Messina per coinvolgere il popolo nella lotta di liberazione della penisola. A Messina l'insurrezione morì quasi sul nascere, mentre in Calabria si protrasse per circa due settimane.

Il capo fu Domenico Romeo di S. Stefano d'Aspromonte, coadiuvato dal fratello Giovanni Andrea, dal nipote Pietro, dal cugino Stefano e dai patrioti Plutino, Genoese, Di Lieto, il canonico Pellicano, Pietro Foti ed un folto gruppo di seguaci. Fu posto da loro l'assedio al Castello aragonese della città e si verificò la resa della guarnigione borbonica e l'occupazione del carcere di S. Francesco. Fu allora istituito un governo provvisorio. Ma i Borbone, avvertiti telegraficamente, inviarono due piroscafi per sedare la rivolta al comando di Ferdinando Nunziante.
La repressione fu durissima: venne dapprima catturato Domenico Morabito pure lui di Santo Stefano e fucilato nei pressi del Calopinace. La stessa sentenza di morte fu poi applicata a Raffaele Giuffrè Billa, Antonio Ferruzzano e Giuseppe Favaro. I liberali superstiti si spostarono, guidati da Domenico Romeo, verso il monte Basilicò, ma il 15 settembre del '47 vennero fermati a Pedavoli. Nello scontro a fuoco che seguì Domenico Romeo venne colpito a morte. La sua testa, spiccata dal busto, infissa in un'asta, venne mostrata, spettacolo orribile, per incutere terrore ai rivoltosi carcerati di S. Francesco a Reggio Calabria.
Il moto intanto s'era propagato pure nella costa ionica. Qui soprattutto cinque giovani per lo più universitari, con un loro seguito, elaborarono un piano insurrezionale e occuparono Biano, Ardore, Siderno e Gioiosa Ionica al grido di W L'Italia, W la Costituzione. Abbatterono gli stemmi reali e catturarono il Sovrintendente di Gerace. Ma pagarono cara la loro audacia. Traditi, furono catturati nella notte tra il 9 e il 10 settembre e fucilati. I loro nomi vengono ricordati da una lapide in marmo bianco sulla quale si legge: Bello Michele da Siderno, Mazzone Pietro da Roccella Jonica, Ruffo Gaetano da Bovalino, Salvadori Domenico da Bianconovo, Verduci Rocco da Caraffa, precursori di Libertà, in un pannello bronzeo dell'artista Francesco Jerace, eretto il 7 giugno del '31, a Gerace.

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