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L'Anniversario. Un anno fa, il 7 giugno 2009, veniva a mancare il poeta Francesco Graziano


Un anno fa, era il 7 giugno, veniva a mancare il poeta Francesco Graziano, storico fondatore nel 1986 della rivista “ilfilorosso”, semestrale di cultura, poesia e letteratura. Una malattia, quella del secolo, ancora per tanti invincibile, lo ha strappato alla vita ed alla poesia. Era, il professore Graziano, come il capitano di una nave. «Il viaggio è finito, la nave è in porto, al sicuro, ma il Capitano giace immobile e freddo, sulla tolda della nave. Caduto». Così ne descrive la figura in uno dei tanti contributi e testimonianze in occasione del primo anniversario, la scrittrice Maria Antonietta Nardone, da lungo tempo amica e collaboratrice della rivista. «Il Capitano Graziano – scrive la Nardone, che omaggia il poeta con i versi di Whitman - ha governato la sua nave con piglio sicuro, con tenacia scrupolosa. Per 24 anni, ha portato in mare questa imbarcazione di idee, riflessioni, storie e critiche, versi e saggi che è stato e che spero continuerà ad essere ilfilorosso. È lui che ha saputo raccordare i fili, far alzare le vele, con sapienza conoscere e prevenire l’imprevedibile: la capricciosità dei venti. Instancabile, trascinante ma con un modo di fare sinuoso, delicato e non travolgente. Autorevole, ma non autoritario».
Una personalità piena di interessi, quella di Francesco Graziano, ricordata pure qualche mese fa, nel corso di una due-giorni, durante la quale venne delineato il suo impegno di intellettuale, di educatore e di operatore culturale. E di fondatore ed animatore della citata rivista che dirigeva assieme alla moglie Gina Guarasci, e che vantava e vanta dalla prima ora collaborazioni prestigiose, ed una vastissima rete di collaboratori.
«Ilfilorosso – ricorda Gina Guarasci - era la sua creatura più preziosa, che amava al pari delle relazioni amicali e dei giovani in cui riponeva grandi speranze e a cui dedicava tanta parte del suo tempo. I suoi alunni hanno ricordato, in più occasioni, i pomeriggi dedicati al “cinema d’autore”, a “cinema e letteratura”, a “poesia e cinema”; incontri densi di amore per l’arte e la cultura, ma intensi per i semi di verità, giustizia e impegno civile che Francesco cercava di seminare nelle menti e nei cuori».
Graziano era nato a Rossano (Cs) nel ‘49, città fiera della sua storia e delle sue origini bizantine, in lui, però, c’erano esperienze e radici diverse. Aveva passato i primissimi anni in Argentina, a Buenos Aires e gli erano rimasti nel cuore l’ansia di spazi immensi. Gli studi superiori, prima nel collegio di S. Demetrio Corone e poi quelli universitari a Napoli, dove venne a contatto con illustri maestri, lasciano tracce in lui che alimentano curiosità e passioni forti per la letteratura e il cinema. Giovanissimo, conobbe e strinse rapporti con molti intellettuali, tra cui Mario La Cava e successivamente con Roberto Roversi. Ha pubblicato studi su Montale, Moravia, La Cava, Pea, Cicognani, Satta, Seminara, Roversi, Campanella ecc. Due le raccolte di versi edite: Nasse del Sud (2002) e Cronache d’anni d’abisso e di vento (Rubbettino 2003).
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Il contributo integrale della scrittrice Maria Antonietta Nardone.
O, Capitano! Mio Capitano!
“O Capitano! Mio Capitano!” è il titolo di una celebre poesia di Walt Withman, che il film di Peter Weir, “L’attimo fuggente”, ha reso universalmente e trasversalmente noto.
Indimenticabile è la figura di un professore - e Francesco Graziano è stato anche, e non solo, un professore, mi dicono severo, ma certo appassionato; appassionato come il cinematografico professor Keating, interpretato da un umanissimo e intenso Robin Williams.
Quando ho pensato a Francesco come fondatore e direttore della ventennale rivista (e associazione) ilfilorosso hanno fatto irruzione nella mia mente i versi del poeta di “Foglie d’erba”. Il viaggio è finito, la nave è in porto, al sicuro, ma il Capitano giace immobile e freddo, sulla tolda della nave. Caduto.
Il Capitano Graziano ha governato la sua nave con piglio sicuro, con tenacia scrupolosa. Per 24 anni, ha portato in mare questa imbarcazione di idee, riflessioni, storie e critiche, versi e saggi che è stato e che spero continuerà ad essere il filorosso. È lui che ha saputo raccordare i fili, far alzare le vele, con sapienza conoscere e prevenire l’imprevedibile: la capricciosità dei venti. Instancabile, trascinante ma con un modo di fare sinuoso, delicato e non travolgente. Autorevole, ma non autoritario.
Basta sfogliare a caso i diversi numeri di questa sobria eppur elegantissima rivista per restare senza fiato nel constatare come si spazi dall’uso del dialetto ai più lontani paesi d’Oriente, dalla poesia alla prosa, da acute analisi sui più importanti films degli ultimi anni ai versi folgoranti sulla 1° guerra del Golfo di Roberto Roversi, dai saggi più eterodossi, che affondano in altri saperi e discipline, come quelli del poeta-critico-psichiatra Onano alle ricostruzioni delle tradizioni contadine più autentiche. E ancora saggi e critica letteraria su Montale e Sereni, Gatto e Borges. Invettiva ed estasi lirica, ricordo famigliare e affresco sociale, radicamento nel territorio, vissuto come una risorsa identitaria alta, indignazione per un declassamento etico del nostro paese prima ancora che economico e culturale. Il tutto, e tanto, tanto altro, governato da un rigore, intellettuale e stilistico, che non ha mai ceduto il passo. Lo ripeto: da un rigore, intellettuale e stilistico, che non ha mai ceduto il passo.
Quindi, che cosa colpisce di più di questa rivista?
Ricchezza di temi e di approcci; profondità di vedute, senso della prospettiva e l’essenzialità, riscontrabile peraltro anche nella sua forma grafica. L’ essenzialità, in terre ubriache di sovrabbondanza, ha davvero del prodigioso. Ma è un prodigio tutto umano, umanissimo, frutto della laboriosità e della caparbietà di un uomo, che ha chiamato a raccolta altri uomini e nuove donne, per attraversare un pezzo di strada o di mare, insieme, accanto, vicini pur nella propria irriducibile individualità. Come un allenatore di calcio che sappia valorizzare e promuovere le singole capacità dei suoi giocatori invece di uniformarli e omologarli ad una sua rigida idea di gioco. Insomma più uno Zeman che un Sacchi. Francesco Graziano non avrebbe mai frenato, spento o inscatolato in uno schema i suoi Baggio.
Che cos’altro ancora colpisce?
L’attenzione alla lingua, a questa nostra lingua italiana, tanto ricca di sfumature quanto spesso maltrattata; la lingua, che per molti scrittori e poeti è considerata la loro vera patria, la loro Heimat. Un’attenzione, nata dall’amore - per Simone Weil attenzione è amore -, che si coglieva non solo dal suo lavoro di direttore, di critico, direi ovviamente di poeta, ma anche dalla sua capacità di parlatore, che io ho avuto modo di conoscere dalle nostre conversazioni telefoniche, dai nostri incontri e più ancora dai suoi interventi in convegni e riunioni varie. Mi spiego; non mi riferisco ad una capacità affabulatoria, in qualche modo incantatrice, di un abile quanto talentuoso narratore. No. Quando Francesco parlava - e Francesco amava parlare - sentivo, veramente, vedevo all’opera, un uomo che stava pensando. Sentivo lo sforzo, la pausa, lo scrupolo di tradurre al meglio lo svilupparsi del suo pensiero. Ebbene, questa è un’esperienza che mi è capitata, a questo livello, in pochissime occasioni; faccio un nome su tutti: Emanuele Severino e pochissimi altri. Con questi pochi, con questi Felici Pochi, io ho sperimentato la gioia di ascoltare e vedere un uomo che pensa quando parla. Di questa gioia e di questa esperienza gli sarò sempre grata.
Chiudo questo mio intervento così come ho cominciato; col professor Keating del film di Weir. Quando il professore è costretto a lasciare il college dove insegna, è costretto perciò a congedarsi dai suoi ragazzi, essi, per salutarlo, salgono in piedi sui banchi di scuola, pronunciando i versi «O, Capitano! Mio capitano!». È un momento molto toccante della storia e del film tutto, che credo molti di voi ricorderanno.
Noi, che non abbiamo l’età ma soprattutto l’agilità di quei ragazzi, per non incorrere in qualche rovinosa caduta, possiamo esimerci dal salire sul tavolo o sulla sedia, e dire, semplicemente: ciao, capitano, mio capitano, nostro carissimo, unico capitano. Ciao.

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