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Il Sessantotto secondo Angelo Avignone

Come annunciato in uno dei post precedenti, il rendez-vouz culturale svoltosi lunedì scorso alla Biblioteca Nazionale di Cosenza ha analizzato sotto diversi aspetti e punti di vista cosa è stato e cosa ha rappresentato il Sessantotto.
Qui di seguito, a beneficio dei nostri navilettori, la relazione integrale di Angelo Avignone, presidente di “Mediterranei d’Europa”.

Note e testimonianze sul Sessantotto
di Angelo Avignone

Nel momento in cui si svolgono tante iniziative, in Italia e in altri Paesi, per ricordare e ripensare quel complesso movimento politico, culturale e sociale, che investì il mondo occidentale alla fine degli anni Sessanta e che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto, anche l’Associazione Mediterranei d’Europa, in collaborazione con la Biblioteca Nazionale di Cosenza e il Seminario di Storia Moderna dell’Unical, attraverso la mia persona vuole dare il suo piccolo contributo di idee ad un dibattito che dopo quarant’anni continua a svilupparsi su posizioni contrastanti.
Il mio intervento si limiterà a brevi considerazioni di carattere personale su una stagione di contestazione studentesca, più lunga sotto il profilo temporale e più significativa dal punto di vista sociale e politico, rispetto alla rivolta del Maggio francese, e contemporaneamente è la testimonianza diretta di come ho vissuto io quel periodo, dal momento che nel 1968 ero studente nella fase conclusiva dei miei studi universitari e poi giovane docente alle prime esperienze didattiche, quando bisognava confrontarsi con giovani, che cominciavano ad assorbire l’idea della contestazione radicale dell'ordine costituito, della scuola in particolare, e dei valori dominanti.
Negli anni Sessanta, già serpeggiava una certa inquietudine, non tanto legata alla scuola, quanto all'evoluzione generale della società nel dopoguerra. In quegli anni la nostra generazione godeva delle ultime fasi di quel "miracolo economico", che aveva anche creato una società in cui il benessere si accompagnava con una sempre più marcata carenza di valori e di ideali.
Dagli Stati Uniti giungeva la notizia che erano nati movimenti che "contestavano", seppur confusamente, la società dei consumi. I giovani della beat generation, proclamavano la propria esigenza di vivere e rinnegavano i valori dominanti; gli hippies, i "Figli dei fiori", chiedevano a gran voce il diritto di realizzare un’esistenza libera dalla schiavitù del lavoro, dei consumi e del denaro, e proclamavano il libero amore e il diritto dell’uomo a una vita libera dalla violenza della guerra; gli studenti, contestavano la partecipazione americana alla guerra del Vietnam perché, oltre a non comprendere le ragioni dell’intervento, non ne riconoscevano la legittimità e la protesta studentesca contro la guerra, dagli Stati Uniti, si estese in Europa, diffondendosi prima in Francia, quindi nella Germania Federale e in Italia..
In Italia il percorso dei giovani si snodava attraverso molteplici avvenimenti. Di essi ricordiamo la partecipazione alle manifestazioni antifasciste del luglio 1960; il ruolo dei giovani operai meridionali nei duri scontri di piazza Statuto nel luglio del 1962; la diffusione del movimento beat in alcuni dei maggiori centri urbani (Roma e Milano) e l’accettazione di comportamenti definiti “anomali” (capelli lunghi, abbigliamento trasandato, fughe da casa); la diffusione di un movimento pacifista e antimilitarista che prendeva le distanze dai due grandi schieramenti politici e militari, USA e URSS, attraverso i quali si articolava la “guerra fredda”; l'uccisione di Paolo Rossi, avvenuta a Roma nell'aprile del 1966, ad opera di un gruppo di neofascisti, che scosse profondamente la coscienza di ampi settori studenteschi; le “prove di rivolta” nelle scuole medie superiori contro le carenze strutturali e culturali che pesavano sul sistema scolastico nazionale; le prime occupazioni di facoltà universitarie, ancora legate a specificità didattiche, ma dimostrazione di una crescita di radicalismo che di lì a poco avrebbe determinato la crisi irreversibile delle organizzazioni giovanili universitarie, in gran parte direttamente riconducibili ai partiti nazionali.
A Messina, città dei i miei studi universitari tra il 1964 e il 1968, in questi anni c’era un certo fermento politico-culturale sostenuto e favorito dalle diverse organizzazioni giovanili, politicamente orientate, e precisamente dall’ ASGO, che si muoveva nell’area della sinistra, dall’UGI, laica il cui leader era Santo Versace, dalla cattolica INTESA, che per circa un quindicennio assieme all’UNURI, il parlamentino universitario il cui presidente era Nuccio Fava, aveva guidato la lotta per la democratizzazione degli Atenei, e dal FUAN, l’associazione dei giovani fascisti.
In queste organizzazioni, che poi erano presenti a livello nazionale nelle diverse università, era prevalso un orientamento segnato da un corale “non se ne può più dei baroni delle cattedre e da un bisogno di autonomia e di autogoverno. Questo aspetto fu il cavallo di battaglia dell’UNURI, che allora promosse una “Giornata nazionale per l’autonomia e l’autogoverno dell’università”, ad ogni livello degli studenti, degli assistenti e dei docenti.
Giungeva anche in riva allo Stretto l’eco delle occupazioni dell’Università di Firenze contro il Ministro Gui, dell’Università di Pisa, della Sapienza di Roma, ma quando giunse la notizia della morte di Paolo Rossi anche a Messina gli studenti manifestarono la pubblica indignazione con un corteo e un sit-in nei cortili interni dell’università, seguiti da scontri con gli studenti del FUAN. Gli scontri tra le organizzazioni di sinistra e quelli di destra non erano soltanto verbali, ma talvolta anche fisici, come quello avvenuto sul finire del 1967, quando in città era venuto Cesare Mantovani, Presidente del FUAN nazionale, il quale aveva esasperato gli animi degli studenti democratici ripetendo quel che allora andava dicendo: che <<>>. Nuccio Fava, ancora alla guida dell’UNURI, scriveva su “Il Popolo” che l’intervento della polizia, in quell’occasione, non era una soluzione, ma al contrario una prova di incapacità a capire e fronteggiare i problemi.
Cominciai allora a partecipare alle riunioni che avvenivano all’interno dell’organizzazione giovanile ASGO, dove le discussioni e i dibattiti, partendo da questioni universitarie, guardavano alla “contestazione globale” volta a demolire il sistema. Era questa l’idea paradigmatica del verbo sessantottino che trovava il suo punto di riferimento nel Movimento studentesco di Mario Capanna, che, da Trento in giù, spingeva alla contestazione. Contestazione che aveva come premessa la democrazia nelle università, ma come fine ultimo dell’azione lo scontro con il sistema dei poteri capitalistici. La premessa di tale piattaforma era l’analisi dei rapporti di classe intercorrenti tra la scuola e il vigente sistema di potere, con una netta condanna del meccanismo di subordinazione della scuola e degli studi al mercato capitalistico, che si riteneva potenziato dalle riforme progettate dai governi Moro. Occorreva creare le condizioni, nelle università e nelle scuole, per l’organizzazione e l’articolazione dell’attività comune dei docenti e studenti per eliminare l’autoritarismo e inaugurare, al di là del nozionismo, un lavoro di studio e di ricerca capace di formare la coscienza critica. Tutto ciò come premessa a una spinta rivoluzionaria che, già nel 1969, dopo l’autunno caldo e l’attentato di Piazza Fontana, si era notevolmente svigorita.
Tralascio l’elencazione delle proposte e delle rivendicazioni del Movimento per sottolineare uno degli aspetti che dal sessantotto in poi sarà la vera espressione del cambiamento nella scuola: l’assemblea d’Istituto, un'assemblea generale degli studenti di una scuola per discutere i propri problemi e decidere in merito. Nelle note “Tesi della Sapienza” veniva sottolineata l’importanza dell’assemblea nell’ambito di una democrazia partecipativa, che rifiuta per sua natura le delega. La partecipazione degli studenti alle assemblee di facoltà nelle università e di istituto nelle scuole superiori era allora intensa e sentita perché lì c’era l’opportunità di discutere di metodi, di fonti di lavoro e di obbiettivi volti allo svecchiamento dell’istituzione scuola, che rimaneva nei metodi e nei contenuti una scuola selettiva e classista, in quanto si preoccupava soprattutto di offrire una buona cultura ai ragazzi destinati a proseguire gli studi e che poco o nulla offriva a quelli delle classi sociali meno abbienti. In questa direzione si muoveva la famosa “Lettera ad una professoressa” di Don Lorenzo Milani, la cui critica contro l’autoritarismo dell’istituzione scolastica e degli insegnanti, contro la natura elitaria e anacronistica del saper che veniva impartito, contro il meccanismo delle deleghe a favore di una democrazia assembleare era abbastanza rigorosa e severa.
Le discussioni si sviluppavano su un insieme di principi egualitari e libertari, sull’onda del movimento francese che si presentava, nella forma di contestazione diffusa e radicale, quale reazione alla mancata traduzione nella realtà civile e politica di quei valori coniati con la presa della Bastiglia e l’inizio del movimento rivoluzionario: libertà e uguaglianza. E l’obiettivo era: riorganizzare la società sulla base del principio di uguaglianza, rinnovare la politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, eliminare ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale, estirpare la guerra come modo di relazione tra gli stati.
Devo dire che il fascino evocato dalle posizioni provocatorie di Don Milani mi spinse, in seguito, non soltanto alla lettura del celeberrimo saggio, L’uomo a una dimensione, di Herbert Marcuse, il filosofo tedesco esponente della Scuola di Francoforte emigrato in America, che ha fornito un’analisi critica sia della società sovietica sia di quella americana, volta alla ricerca <<>> (Cozzetto), ma anche a quella del Libretto rosso di Mao e agli scritti di Che Guevara. Tutti libri che all’epoca circolavano non solo nelle università, ma anche nelle scuole superiori, come ho avuto modo di constatare da lì a poco quando cominciai, proprio nel settembre del 1968, ad insegnare a Cosenza, dove era presente un attivismo spontaneo e un fervore studentesco volti alla rottura della logica stanca del conformismo e alla rimozione di consolidate incrostazioni e cristallizzazioni. Si pensi, ad esempio, al comportamento degli studenti del Liceo Scientifico “Scorza”, i quali vollero dire la loro nel panorama del rinnovamento e della contestazione, intesa nell’accezione di testimonianza, esercitando, a dire di Luigi Michele Perri, all’epoca allievo del Liceo e oggi noto giornalista, <<> degli insegnanti e degli studenti.
Il Sessantotto, inteso non solo come spazio temporale, ma come atteggiamento e modo di essere, nella scuola cosentina, però, non fu solo discussioni e teorizzazioni di principi tendenti a risolvere i problemi di gestione e di contatto tra scuola-famiglia-società, ma bisogna ricordare che si verificarono scontri di natura politica, culminati in atti di violenza, come quando alcuni studenti democratici del Liceo “Scorza” furono duramente picchiati con le catene dai fascisti di Reggio Calabria, dove imperversava la rivolta dei “Boia chi molla”.
Allora la mia attività didattica poggiava sul principio della necessità di un cambiamento di comportamento e di una revisione del ruolo dell’insegnante all’interno della scuola. Non volevo più un atteggiamento di sudditanza degli alunni di fronte al professore; pensavo a un luogo di studio dove si potesse discutere insieme. Rifiutavo l’immagine dell’insegnante altezzoso ed esasperatamente rigido, sicuro di sé, e mi ripugnava l’idea che l’alunno dovesse accettare passivamente i contenuti culturali. Pensavo che un insegnante dovesse essere un uomo, col suo sapere e il suo ruolo, in un rapporto più umano, più coinvolgente. Un insegnante deve parlare e rispondere ai suoi alunni con onestà intellettuale. E’ forse questa la qualità essenziale di un docente, che saprà far capire ai suoi alunni come dietro alle proprie parole c’è il lavoro, lo studio, certo non la pretesa di trasmettere delle verità assolute.
Quante volte, in cattedra, mi ritornavano in mente le giornate scolastiche di alunno di liceo, quando, intimidito, non osavo fare osservazioni per paura che l’insegnante mi zittisse! Si, perché allora non era facile dissentire e, talvolta, neppure chiedere ulteriori chiarimenti perché, in quest’ultimo caso, si rischiava di subire un rimprovero per distrazione, se non per scarsa capacità di comprensione. Nello svolgimento dell’attività didattica avvertivo la necessità non solo di tenere desta l’attenzione dei miei allievi, ma di stimolarli a parlare, a fare intervenire tutti, soprattutto i più timidi, che spesso hanno dentro potenzialità represse. Era la fine dell’autoritarismo dell’insegnante, che non perdeva, per questo, i diritti professionali e culturali!
Si sente dire che la scuola di quegli anni fu molto permissiva e favorì l’incultura, ma su questo voglio dissentire, almeno per ciò che mi riguarda personalmente. Ricordo, invece, che gli alunni non disdegnavano affatto lo studio delle mie discipline, anzi spesso si impegnavano nell’approfondimento delle problematiche dimostrando amore per la cultura.
Tale amore si evidenziava ancor di più durante le discussioni in classe, quando molti alunni esponevano le loro acquisizioni in maniera non immediatamente scolastica, ma filtrate da letture critiche, che innalzavano il tono del dibattito culturale. Insegnante e alunni ci confrontavamo sui problemi letterari con visuali critiche contrapposte, e non si discuteva soltanto di “poesia e non poesia”, ma anche degli elementi sociali di un poeta, come pure si guardava alla letteratura non come bella letteratura, come valore superiore, piuttosto come attività umana, come realtà storica e sociale. Di certo era una scuola vivace perché gli alunni erano protagonisti del dialogo culturale e stimolavano anche il docente all’approfondimento di temi e problemi della letteratura. Leggevano davvero tanto, disordinatamente dirà qualcuno, ma avevano nozioni di economia, di politica, leggevano Mao, il manifesto di Marx, Marcuse, Lukàcs, Baumann, del quale allora si parlava perchè colpito dall’epurazione antisemita in Polonia, e scrivevano volantini e documenti. Allora i giovani studiavano e vivevano con l’idea che bisognava studiare, leggere quanti più libri possibili, che bisognava andar bene a scuola, solo così si sentivano sicuri e si volgevano a conquistare il mondo. Oggi, in questa società dell’apparire, essi si rifugiano nel privato o per mancanza di ideali o per sfiducia nella possibilità della loro attuazione, si sentono un po’ vittime e si lamentano del fatto che gli adulti non si occupano abbastanza di loro, che lo stato si dimentica di loro.
Sono rimasto in cattedra da allora fino a qualche anno fa e di giovani ne ho visti tanti davvero negli anni della mia attività didattica! Con loro ho vissuto le diverse fasi e i diversi passaggi generazionali, ma non ho mai dimenticato quegli anni ”formidabili”, che delimito in un arco di tempo che va dal 1968 alla seconda metà degli anni Settanta, quando la lotta armata cominciò a prendere il posto delle assemblee e della contestazione studentesca.
Di quegli anni conservo il patrimonio dei sogni, degli ideali, delle utopie, dei valori che fino a poco tempo prima erano stati interesse di pochi. Temi come il pacifismo, l’antirazzismo, il rifiuto del potere come forma di dominio di pochi privilegiati sulla popolazione, i diritti delle donne e l’interesse per l’ambiente entrarono a far parte stabilmente del dibattito politico e socio-culturale del mondo intero, grazie a quel movimento che, come dice Mario Capanna a suo figlio Dario, fu l’entusiasmo e il gusto per ogni cosa, lo stare insieme, l’amore e lo studio.
Ci furono anche errori e violenze nel Sessantotto, ma questo non vuol dire che nel suo complesso il movimento fosse negativo. Le questioni allora poste sono ancora attuali. Movimenti come questo possono portare in alto e generare grandi valori o degradare, per superficialità, per fretta, verso l’intolleranza. Il compito di ogni cittadino deve essere di evitare il degrado della violenza.

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