di Carmelina Sicari
Tra i vari coccodrilli
spesi per la morte di Jacqueline Risset, manca uno che pure ha
connotato la mia formazione critica. Quello che ha definito la
scrittrice e critica letteraria francese attraverso non solo le virtù
ma gli errori. È stato fatto a me personalmente mentre giovanissima
frequentavo il grande maestro Giorgio Petrocchi a Roma al Magistero
più precisamente.
Ero stata allieva del
grande italianista a Messina e mi recavo a trovarlo al Magistero per
imparare meglio il mestiere di critico a cui intendevo dedicarmi. Mi
disse un giorno di andare a sentirlo alla Sapienza; vi avrebbe
presentato un libro della Risset, appunto. Ero perplessa. L'invito mi
era stato fatto non una certa aria di mistero che non sapevo
spiegarmi. Fui puntualissima. Il libro della Risset era nientemeno
che la traduzione in francese, della Divina Commedia, opera immane e
faticosissima. Tra i relatori anche Giovanni Macchia, un mostro di
popolarità tra gli addetti ai lavori. L'opera non poteva che essere
elogiata per la fatica e la cura ma in finale Giorgio Petrocchi fece
una aggiunta a dimostrare la grandezza dell'opera.
Nel canto V dell'Inferno
l'autrice aveva tradotto per ragioni di rima la dizione cognati,
Paolo e Francesca appunto con cousins, cugini. Si perdeva però nel
termine l'abisso del peccato incestuoso, l'orrore di esso, la
percezione terribile di sfida che conteneva. Io sempre più stranita
andai dal maestro. Mi disse che non dovevo perdere la grandiosità
dell'opera ma anche comprendere che nessuna opera per quanto
grandiosa è esente da difetti e che riconoscerlo è il primo
gradino della libertà critica. Grandissima lezione.
Essa si ripeté ad
Urbino, quando a tenere le lezioni di critica era Umberto Eco. Fu
pittoresca ma ugualmente esemplare. Con un fumetto Eco rappresentava
alla lavagna due interlocutori, uno in una nuvoletta diceva: - Se
avessi cento milioni; e l'altro maligno soggiungeva: - Ma non ce
l'hai.
Eco chiese a tutti come
ci pareva fosse l'interlocutore B ed avendo avuto risposte banali
come realista alla fine decretò: - È un imbecille.
Ci lasciò interdetti
fino a che uno degli astanti si alzò offeso: - Imbecille è lei,
professore. Ed Eco imperturbabile: - In tutto il mondo ho trovato
imbecilli che difendono l'imbecille B.
Inutile dire che la
lezione finì male e che Eco decise di non tornare a parlare se non
dopo molto tempo. Solo dopo lungo rimuginare compresi che B era
imbecille perché non entrava nella comunicazione segnata
dall'incipit dell'altro. Si era chiuso nel suo codice realista.
Lezioni di critica certo all'altezza di grandi protagonisti.
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