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L'eterna follia ne l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto

di Carmelina Sicari
Cinquecento anni dall'apparizione del Furioso (prima edizione 22 aprile 1516), il poema non solo della modernità ma della condizione globale dell'uomo apparso prodigiosamente nel cuore dell'umanesimo a proclamare la fallacia della speranza umana. Speranza di che? Di immortalità, di centralità, di grandezza. Ecco l'eroe che aveva percorso la poesia cavalleresca, le canzoni di gesta, l'intera Europa, con il suo coraggio, con il valore, eccolo divenuto pazzo. Era l'eroe centrale, lo ricordiamo anche dell'Aspromonte. Ecco che Orlando si aggira nudo, barbuto, senza senno per metà del poema.
Ricordo lo stupore ed anche lo sconcerto che il bravissimo docente di Italiano al liceo ci comunicava alla lettura degli episodi della follia. Perché renderlo pazzo ed Ariosto che voleva dire? Proprio lo sconcerto del mio amato professore mi obbligò quasi ad occuparmi della faccenda. Il paradosso era evidente. Ariosto che aveva seguito per il suo poema tutto lo schema delle chanson, la genealogia degli eroi, la continuità delle loro imprese, il fine cortigiano e persino gli espedienti di interrompere l'azione nel momento culminante per rinviarne l'esito e prolungare l'attesa dell'ascoltatore, che aveva ricucito la tradizione epica con le invocazioni iniziali e così via poi clamorosamente faceva impazzire l'eroe che aveva fermato gli infedeli e sacrificato la sua vita sui Pirenei. Che senso aveva tutto questo? E poi si vedeva che Ariosto si divertiva molto nella rappresentazione del suo personaggio. Ariosto sorride, proclamava indignato il mio professore, anzi ride. Ammetto che l'idea del riso gli veniva dalla formazione crociana. Croce per primo infatti aveva denunciato quel singolare riso che corre di ottava in ottava e che sembra invitare il lettore a non prestare fede all'eroismo, appunto alla grandezza che tanto è tutto illusorio. Aveva ragione qui Momigliano. Il simbolo più grandioso del poema è il castello di Atlante dove l'illusione è conclamata, svelata eppure mai vinta, anzi invincibile. I paladini che lo abitano e che corrono avanti ed indietro affannati per le scale, fanno per uscire quando ecco gli appare la cosa, la persona, che cercavano e che li attira invincibilmente inesorabilmente dentro. Rinaldo vi vede un cavallo, Orlando naturalmente Angelica. Perché Orlando è innamorato di Angelica che lo sfugge che anzi fugge durevolmente. La vita del paladino non ha più centro e la follia si annida qui. La follia di Orlando è assolutamente diversa, anzi opposta a quella del più grande eroe greco pazzo, Aiace. Aiace impazzisce per la urbis perché riteneva di essere il più valoroso combattente dopo Achille e che quindi le armi di Achille gli spettassero di diritto. Orlando non ha più al centro del desiderio la gloria, le armi, la patria ma Angelica sfuggente. A ben considerare neppure gli altri paladini hanno più centro. La difesa di Parigi sembra un pretesto perché intorno a Parigi non resta più nessuno. Rinaldo insegue il suo cavallo, Orlando Angelica e così via e quando si ritrovano nel castello di Atlante quasi non si riconoscono tutti presi dalla ricerca affannosa, implacabile che li divora. Ma oltre i simboli c'è altro: l'elemento letterario, la sonora musicale ottava, la capacità di sospendere con accorgimento moderno la narrazione nel momento culminante per rinviarla, la variazione dei temi e dei toni come le corde di un'arpa raffinatissima. Tutte cose su cui potremo tornare a celebrare il prodigio di un capolavoro indiscusso. L'ippogrifo che insieme al castello di Atlante è l'altro simbolo del poema ci ricorda la necessità della fantasia, del volo. E l'ippogrifo porta Astolfo sulla luna a recuperare il cervello proprio e di Orlando perché sulla luna è fuggita la gran parte dei cervelli umani.

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